Per imparare a leggere i racconti ci vuole tempo. È proprio questione di allenamento, almeno per me è così: più ne leggo e più imparo a capirli, e più li capisco e più li apprezzo. Ho ripreso le vecchie raccolte che ho letto e le sto riscoprendo piano piano. Ho deciso di riportarle qui, una alla volta, e studiarle insieme. Prendetelo come un percorso di apprendimento, una sorta di esercitazione. Impariamo a leggere i racconti. Ci proviamo, almeno.
Una mia amica, l’altro giorno, mi ha detto: «Ho adorato quel libro perché ho avuto la sensazione che l’autore mi conoscesse. Ha dato una risposta a tutte le mie domande». Quanto spesso accade? Quante volte un libro diventa il nostro preferito perché ci siamo incontrati e riconosciuti, scoperti e svelati? Quante conferme abbiamo ottenuto dai romanzi? Quante smentite. In ogni caso sempre e solo conclusioni. Alla mia amica, alla continua ricerca di certezze, i racconti non piacciono perché funzionano proprio all’opposto: i racconti creano insicurezze. Leggendo racconti non otterrete molte risposte, ma arriverete alla fine della storia con altre domande, altre perplessità. Vi sentirete meno sicuri, più sbilanciati. Molto più esposti. I racconti sono scomodi. Non c’è un confine preciso tra inizio e fine, spesso non c’è neanche una fine. Non c’è rassicurazione, perché è un campo di battaglia a cielo aperto. Da dove proviene quel disagio che vi stordisce, vi piega e vi affascina? Non sarete più in grado di distinguere quello che è storia e quello che non lo è. Vi riconoscete, in quella parte di voi stessi che più vi confonde, che più vi corrisponde.
La punta, il primo della raccolta Il suo vero nome, è uno dei racconti che più lo caratterizza. Kurt è un ragazzino di tredici anni che passa le sue serate ad accompagnare a casa i grandi che hanno bevuto troppo. I grandi sono amici della madre, che organizza feste nelle quali beve troppo anche lei. Kurt è stato avviato al “mestiere” da suo padre e, essendo ormai un veterano nel settore recuperi, sa che per svolgere la sua missione nel migliore dei modi non deve permettere che l’ubriaco cada nel buco nero, quel groviglio di tristezza e autocommiserazione dal quale, una volta dentro, non sarebbe più in grado di tirarlo fuori. La signora Gurney è la vittima di turno, l’anima che Kurt deve portare in salvo. Durante il tragitto la pena della donna prende il sopravvento: accade qualcosa, che è un po’ come sporgersi a guardare il fondo di un pozzo. Dopo qualche esitazione, Kurt riesce a condurre la signora Gurney a casa, nel suo letto, dove si addormenta quasi subito. A questo punto il racconto si ferma, per continuare in un’altra direzione: Kurt torna a casa agitato e confuso, la festa è in pieno svolgimento; c’è ancora l’alcol, c’è ancora la musica e c’è ancora sua madre che continua a fare avanti e indietro come un animale in gabbia. Kurt sale in camera ma non riesce a dormire, allora tira fuori una lettera di suo padre da sotto il materasso, esce fuori, si siede sull’altalena e inizia a leggerla. Questo è il nostro binario: quello che parte da Kurt, attraversa la madre e, per mezzo della signora Gurney, arriva fino al padre. Il padre è la nostra fermata, è quella presenza ingombrante che abbiamo sentito durante tutto il viaggio. È quel punto, lo stesso dal quale molti scrittori sono partiti, o fuggiti. È Seymour Glass, è Hemingway. È così tanta vita che noi, leggendola da sempre, non riusciamo ancora a colmare.
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Il suo vero nome, Charles D’Ambrosio. Minimum fax, 2008. Traduzione di Martina Testa.
Una mia amica, l’altro giorno, mi ha detto: «Ho adorato quel libro perché ho avuto la sensazione che l’autore mi conoscesse. Ha dato una risposta a tutte le mie domande». Quanto spesso accade? Quante volte un libro diventa il nostro preferito perché ci siamo incontrati e riconosciuti, scoperti e svelati? Quante conferme abbiamo ottenuto dai romanzi? Quante smentite. In ogni caso sempre e solo conclusioni. Alla mia amica, alla continua ricerca di certezze, i racconti non piacciono perché funzionano proprio all’opposto: i racconti creano insicurezze. Leggendo racconti non otterrete molte risposte, ma arriverete alla fine della storia con altre domande, altre perplessità. Vi sentirete meno sicuri, più sbilanciati. Molto più esposti. I racconti sono scomodi. Non c’è un confine preciso tra inizio e fine, spesso non c’è neanche una fine. Non c’è rassicurazione, perché è un campo di battaglia a cielo aperto. Da dove proviene quel disagio che vi stordisce, vi piega e vi affascina? Non sarete più in grado di distinguere quello che è storia e quello che non lo è. Vi riconoscete, in quella parte di voi stessi che più vi confonde, che più vi corrisponde.
Ogni scrittore ha il proprio stile; è così nei romanzi, ma ancora di più nei racconti. In Charles D’Ambrosio, per esempio, ho trovato un modo di raccontare che non è paragonabile a nessuno degli autori che ho letto fino ad ora. Ho visto il suo nome accanto a quello di Carver, ma non ci vedo un collegamento così diretto. Sto imparando, e allora posso anche sbagliare, ma se penso a Carver, se dovessi riassumerlo in una sola parola, mi viene in mente il termine sottrazione. Minimalismo direbbero alcuni, altri invece non sarebbero d’accordo. Ma di questo, e di Carver, parleremo più avanti. Quello che mi interessa è il concetto del togliere, del ridurre, e invece D’Ambrosio aggiunge, moltiplica.
Il racconto, l’abbiamo detto più volte, ha un tempo narrativo circoscritto nello spazio di una situazione; c’è una fine, la fine sospesa, che corrisponde al momento in cui lo scrittore di racconti di solito si ferma e passa il testimone al lettore. D’Ambrosio no, non si ferma. Immaginate il binario di una stazione ferroviaria, immaginate che finisca a un certo punto. Ci siete quasi, non riuscite a vederla ma lo sapete. Avete imparato a sentirla arrivare, la fine. Siete pronti. Ma D’Ambrosio vi spiazza perché prolunga le rotaie, aggiunge una curva, e voi siete di nuovo in corsa. Per poco, quanto basta per arrivare alla stazione successiva.
La punta, il primo della raccolta Il suo vero nome, è uno dei racconti che più lo caratterizza. Kurt è un ragazzino di tredici anni che passa le sue serate ad accompagnare a casa i grandi che hanno bevuto troppo. I grandi sono amici della madre, che organizza feste nelle quali beve troppo anche lei. Kurt è stato avviato al “mestiere” da suo padre e, essendo ormai un veterano nel settore recuperi, sa che per svolgere la sua missione nel migliore dei modi non deve permettere che l’ubriaco cada nel buco nero, quel groviglio di tristezza e autocommiserazione dal quale, una volta dentro, non sarebbe più in grado di tirarlo fuori. La signora Gurney è la vittima di turno, l’anima che Kurt deve portare in salvo. Durante il tragitto la pena della donna prende il sopravvento: accade qualcosa, che è un po’ come sporgersi a guardare il fondo di un pozzo. Dopo qualche esitazione, Kurt riesce a condurre la signora Gurney a casa, nel suo letto, dove si addormenta quasi subito. A questo punto il racconto si ferma, per continuare in un’altra direzione: Kurt torna a casa agitato e confuso, la festa è in pieno svolgimento; c’è ancora l’alcol, c’è ancora la musica e c’è ancora sua madre che continua a fare avanti e indietro come un animale in gabbia. Kurt sale in camera ma non riesce a dormire, allora tira fuori una lettera di suo padre da sotto il materasso, esce fuori, si siede sull’altalena e inizia a leggerla. Questo è il nostro binario: quello che parte da Kurt, attraversa la madre e, per mezzo della signora Gurney, arriva fino al padre. Il padre è la nostra fermata, è quella presenza ingombrante che abbiamo sentito durante tutto il viaggio. È quel punto, lo stesso dal quale molti scrittori sono partiti, o fuggiti. È Seymour Glass, è Hemingway. È così tanta vita che noi, leggendola da sempre, non riusciamo ancora a colmare.
Anche la migliore delle conclusioni di D’Ambrosio si trascina dietro la rassegnazione di quel “malgrado tutto” di cui ci parlava Flannery O’Connor; quell’urlo represso di chi si rende conto che le cose, alla fine, non potevano andare diversamente. Forse in questo c’è anche un po’ di Richard Yates.
Gli sembrò di assistere a una qualche epifania miracolosa all’incontrario, come se il sole nascente e il nuovo giorno non avessero donato la vista al mondo ma gliel’avessero tolta, lasciando ogni cosa esposta e nuda.
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Il suo vero nome, Charles D’Ambrosio. Minimum fax, 2008. Traduzione di Martina Testa.
Confesso che prima di leggere A pesca nelle pozze più profonde di Paolo Cognetti (di cui anche tu hai ampiamente parlato) non conoscevo Charles D'Ambrosio e la sua fama di ottimo "short-story writer" ma ho rimediato inserendo tutta la sua esile bibliografia nella mia wishlist . Da quello che mi sembra di capire dalle tue parole è che D'Ambrosio va letto perché è diverso dagli altri e poi già che ci vedi dentro anche qualcosa di Yates...
RispondiEliminaSì, Yates, ma anche molto Hemingway. Se vuoi trovarlo per forza, l'elemento in comune lo trovi: nei temi, negli atteggiamenti dei personaggi. Gli autori di short stories americane convergono in alcuni punti ma si discostano molto per lo stile, per la "voce", e meno male che è così. D'Ambrosio ha una voce meravigliosa, secondo me.
EliminaD'Ambrosio non lo conosco, ma dalle tue impressioni dev'essere veramente valido. Della O'Connor e di Carver ho qui i libri sul comodino, devo ancora decidere con quale dei due iniziare...
RispondiEliminaSu Carver ho ancora qualche punto di domanda. Lessi Cattedrale e mi piacque, ma non in modo straordinario. Mi sono promessa di rileggerlo. Di Flannery ho letto un paio di saggi, che ho trovato davvero interessanti. E poi ho in lista "Il cielo dei violenti" da un'eternità. Al momento lei è quella che più mi incuriosisce.
EliminaSu Carver non si possono avere dubbi...!!! :-P
EliminaPersonalmente fra quelli che ho letto finora di Carver, la raccolta che mi è piaciuta di più è stata Vuoi star zitta per favore?. Cattedrale ad esempio non l'ho ancora letto ma vedrò di rimediare al più presto...per il 2015 vorrei leggere l'opera omnia di Carver...
Io amo le insicurezze, se dovessi avere certezze la mia vita potrebbe dirsi conclusa.
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