Come s'inizia a parlare di morte? Così, da un momento all'altro? Ma come posso iniziare a parlare di Rumore bianco, io, senza parlare della morte? C'entra poco o niente l'uomo moderno, il postmodernismo, e tutti quei termini che potrei infilare in questo articolo per darmi un tono da intellettuale. Non c'entra niente neanche la letteratura. La letteratura non può salvarci dalla morte. Anch'essa è un'illusione: è il sogno di poter vivere altre vite, di respirare nuovi mondi, di poter andare avanti e indietro nel tempo. I libri ci danno una sensazione di eternità, che è meravigliosa, ma è soltanto un abbaglio. La morte ci appartiene, ci accompagna dalla nascita e ci scorre nelle vene tanto quanto la vita. Ne siamo consapevoli, a livello inconscio, ma facciamo in modo di non pensarci. Fingiamo di dimenticarcene. Non ne discutiamo con gli amici, la madre non ne parla con figlio, il marito non ne parla con la moglie. Ma ogni notte, nel torpore del sonno, la stessa domanda si presenta e ci travolge: come potrebbe essere morire?
«E se la morte non fosse altro che suono?»È la paura della morte, più della morte stessa, a terrorizzarci. Per gli altri, per le persone che amiamo, per noi stessi. «Chi morirà prima? Domanda che si presenta di quando in quando, come, per esempio: dove sono le chiavi dell'auto? Conclude una frase, prolunga uno sguardo tra di noi». È da questo che cerchiamo di scappare: l'idea di un incontrovertibile evento che ci capiterà – non sappiamo quando, non sappiamo dove e non sappiamo come – che durerà in eterno. Sappiamo che non esisteremo più, non nel senso in cui siamo abituati a esistere.
«Rumore elettrico».
«Lo si sente per sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda!»
«Uniforme, bianco».
«A volte mi invade,» disse lei. «A volte mi si insinua nella mente, a poco a poco. Io cerco di parlarle. «"Non adesso, morte"».
In un oggi nel quale condividiamo istantanee dalla luna e i cuori palpitano a ritmo sintetico, non abbiamo scoperto il modo per vincere la morte. La differenza, rispetto alle generazioni precedenti, è che noi abbiamo imparato a ingannarci. Abbiamo inventato un universo, nel nostro universo, che ci distrae. Il nostro mondo è una roccaforte di distrazioni. Ci regaliamo delle allucinazioni, identificandoci in tutto ciò che è materiale. Il consumismo è il nostro modo di beffare il destino, la soluzione con la quale abbiamo scelto di abbagliarci. Gli oggetti che compriamo tendono a rappresentarci, quasi quanto un braccio, una gamba. Accumuliamo, senza riuscire a liberarci di nulla, perché noi diventiamo quello che possediamo. E tanto più ci estendiamo, tanto più noi siamo.
Oggetti, scatole. Perché simili beni hanno un peso tanto doloroso? Emanano oscurità, senso di presentimento. Mi rendono diffidente, non nei confronti del fallimento personale, della sconfitta, ma di qualcosa di più generale, un qualcosa di grande portata e contenuto.Onde e radiazioni. Rumore. Tra tutti, la televisione è l'anestetico più feroce e potente che ci siamo concessi: un brontolio rassicurante, ogni volta che lo desideriamo. Scegliendo un canale possiamo sintonizzare i nostri stati d'animo sulle frequenze di cui abbiamo più bisogno; lasciamo che attraverso le immagini si svolga un processo di riequilibrio psicologico: se desidero essere felice, pensare di esserlo, la televisione può aiutarmi. «Il latente effetto narcotizzante e il misterioso potere del lavaggio del cervello». La televisione, la pubblicità: comprare, di nuovo. Oggetti, identificazione. E tragedie. Le tragedie in televisione sono le notizie di cui non possiamo fare a meno. «Perché soffriamo di svanimento celebrale. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l'incessante bombardamento dell'informazione». La tragedia che accade altrove ci rende ancora più eterni, e illusi. Perché qualcosa è successo, qualcosa di drammatico, ma in un altro luogo. Non qui, non a me, non alla mia famiglia. È l'unica occasione che ci concediamo per distrarci dalla distrazione. Ci sentiamo addolorati, partecipi. Ma solo per attimo. Perché non ci riguarda, non veramente.
Quando i tempi sono incerti, la gente si sente costretta a mangiare in eccesso. Blacksmith è piena di simili adulti e bambini obesi, pance cascanti, gambe corte, che si muovono come anatre. Faticano a emergere dalle utilitarie, si mettono in tuta e corrono a famiglie intere in campagna; camminano per strada con il cibo dipinto in faccia; mangiano nei negozi, in auto, nei parcheggi, nelle code degli autobus e nelle sale del cinema, sotto la maestosità degli alberi.
Comperavo con abbandono incurante. Comperavo per bisogni immediati ed eventualità remote. Comperavo per il piacere di farlo, guardando e toccando, esaminando merce che non avevo intenzione di acquistare ma che finivo per comperare. Mandavo i commessi a frugare nei campionari di tessuti e colori, in cerca di disegni esclusivi. Cominciai a crescere in valore e autoconsiderazione.
«Ogni passo in avanti è peggiore del precedente perché mi fa ancora più paura».
«Paura di che cosa?».
«Del cielo, della terra, non so. Più grande è il progresso scientifico, più primitiva è la paura».
Rumore bianco è un libro sulla paura della morte. Sulla ferocia della tecnologia, sull'esigenza che noi crediamo di averne, sulla tossicità che non sappiamo di trarne. È un libro sull'illusione, su cosa succederebbe se esistesse un farmaco che ci distraesse dalla paura della morte, che riuscisse a immunizzarci, ancora meglio, e ancora più totalmente, del nostro rumore artificiale. È un libro sulla paranoia che ci assale quando il presentimento di morte si insinua, vero, inaspettato, nelle nostre apparenti immortalità. Quando accade qualcosa, una catastrofe, che non possiamo ignorare, che ci mette di fronte all'evidenza che no, non siamo eterni.
Ho letto il libro di Don DeLillo col mio gruppo di lettura. Ne abbiamo parlato, ci siamo confrontati. Ad alcuni è piaciuto, ad altri meno, ad altri no. Nessun romanzo, prima di questo, ci aveva trascinato in discussione così densa. Nessuno, fino ad ora, ci aveva portato a riflettere così. Perché è un libro che desta diverse reazioni: il finale, la storia, la trama in sé, non sono privi di difetti. E la morte, la paura che ho cercato di spiegare, a cui neanche per poco mi sono avvicinata, DeLillo la sfiora ma non l'afferra, non del tutto. Non come avrei voluto io. O forse è solo che, ancora una volta, stavo cercando una soluzione, un'illusione, a un evento, incontrovertibile, che non sarò mai abbastanza pronta ad affrontare.
«È la natura della morte moderna», considerò Murray. «Ha una vita indipendente da noi. Sta crescendo in prestigio e dimensione. Dispone di uno slancio mai conosciuto prima. Noi la studiamo obiettivamente. Possiamo predirne l'aspetto, seguirne il corso nel corpo. Possiamo ritrarla in sezione, registrane su nastro tremori e onde. Non le siamo mai stati tanto vicini, mai abbiamo avuto tanta famigliarità con le sue abitudini e i suoi atteggiamenti. La conosciamo nell'intimo. Ma lei continua a crescere, ad aumentare in dimensione e portata, ad acquisirne nuovi sbocchi, nuovi passaggi e mezzi. Più ne apprendiamo, più cresce».
***
Rumore bianco, Don DeLillo. Einaudi, 2014. Traduzione di Mario Biondi.
Una recensione eccezionale, spero che il libro sia allo stesso livello.
RispondiEliminaContinua così.