Ha iniziato a piovere. Piove all’improvviso, piove fortissimo. Mi viene in mente che nelle ultime battute del libro si scatena una tempesta di neve. Qualcuno si domanda se quell’intensità può bastare a definire un blizzard. Hal osserva la finestra: minuscoli granelli di ghiaccio si agitano contro il vetro, fanno un rumore ogni volta come un pugno di sabbia. Ricordo come si sentiva, lui, a guardare fuori, e penso a tutto quello che aveva vissuto, che l’aveva portato a quella finestra in quel preciso momento. Mi viene in mente che niente di quello che ho detto, che mi ero ripromessa di fare, ha qualche importanza adesso, adesso che piove così.
È un libro strano. Non ha l’andamento dei libri normali. Ci sono un sacco di personaggi. Credo che sia quantomeno un tentativo in buona fede da risultare abbastanza divertente e appassionante, pagina per pagina, da non far pensare al lettore che lo sto prendendo a martellate in testa, della serie: «Ecco, beccati questo mattonazzo difficilissimo e superintelligente. Vaffanculo. Vedi un po’ se riesci a leggerlo». Io ne conosco, di libri così, e mi fanno incazzare.Infinite Jest è un libro, un libro enorme, certo, ma è un libro. Leggibile, dunque terminabile. Basta organizzarsi, prendere qualche appunto, dormire poco, bere tante bevande energetiche e arrendersi alla scrittura di Wallace. David diceva, pressappoco: io rifletto in questo modo, che è un modo stratificato e non lineare. Penso una cosa, me ne viene in mente un’altra, ne penso una terza, che è didascalica alla prima, e poi una quarta, e una quinta, e così via. Il mio scopo è scrivere rappresentando questo flusso, facendo in modo che il lettore si muova tra le pagine come se si muovesse nella mia mente. Accolto questo, il resto viene facile. È da qui che dovete partire per capire se questo è un libro che potrebbe far parte delle vostre esperienze di lettura.
David Foster Wallace iniziò a scrivere Infinite Jest con l’intenzione di scrivere qualcosa di molto triste e molto americano. Eppure, spesso, David si sentiva dire che il suo era un libro divertente. Se ne dispiaceva anche un po’. Il fatto è che durante la lettura si ride molto, ma è un riso “a servizio di”, che nasconde un risvolto drammatico. Sull’ironia, che è stata una delle armi del postmodernismo, David aveva un’idea precisa: «L’ironia e il cinismo postmoderni diventano fini a se stessi, diventano la misura della sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria».
L’ironia, secondo Wallace, non doveva essere parodia da intrattenimento, ma un strumento per descrivere la verità, per regolare la lente sul quotidiano, rendendo strano quello che la maggior parte delle persone reputa normale.
L’ironia era il veicolo, il mezzo per raggiungere il nucleo della questione. Wallace non sentiva di appartenere agli scrittori postmoderni, anche se ne riprendeva qualche elemento stilistico, così come non si sentiva un esponente del realismo classico, poco incline alla sperimentazione. È una scrittura, la sua, che attinge tantissimo dalla cultura pop: la musica, la televisione, la spettacolarizzazione, la pubblicità, il potere ipnotico delle immagini, la ripetizione rassicurante, l’assuefazione da familiarità indotta.
Infinite Jest è stato pubblicato nel 1996 e immaginato in un futuro prossimo. Gli anni sono sponsorizzati — le vicende si svolgono soprattutto nell’Anno del pannolone per adulti Depend che dovrebbe corrispondere al nostro 2009. Gli Stati Uniti, il Messico e il Canada hanno costituito l’ONAN: Organization of North American Nations. L’ONAN vuole donare (riconcedere) al Québec la “Grande concavità”: una zona, a nord degli Stati Uniti, divenuta tossica a causa degli effetti dei processi di anulazione. È un luogo disabitato, la flora e la fauna hanno subito importanti mutazioni. Il Québec non vuole annettere il territorio contaminato e, a causa di ciò, avrete parecchie pagine di fantapolitica da smaltire. La storia è ambientata a Boston e si serve di due strutture principali: l’ETA (un’accademia di tennis) e la Ennet House (un centro di recupero per tossicodipendenti). Il fondatore dell’ETA, J.O. Incandenza, è stato anche un regista sperimentale. Si suicida, a cinquant’anni, infilando la testa nel forno. Prima, però, crea l’Intrattenimento (infinite jest, appunto): un film la cui visione provoca un piacere così intenso che tutto quello che desideri è restare lì, di fronte allo schermo, per sempre. Poi muori, o impazzisci, la prima della due. Tutti cercano la copia master dell’Intrattenimento, tenendo fede alle proprie ragioni.
Per me tutto questo, il mondo di quel mondo che è Infinite Jest, può essere riassunto così:
«Perché questa scelta determina tutto il resto. No? Ogni altra nostra scelta, di quelle che tu chiami libere, deriva da questa: qual è il nostro tempio?»Marathe e Steeply si sono dati appuntamento nel deserto, a pochi chilometri dalla città di Tucson. Marathe è un membro de Les Assassins des Fauteuils Roulants, un gruppo estremista tra i più violenti dei separatisti quebechiani. Steeply appartiene ai Servizi Non Specificati degli Stati Uniti. Marathe spiega a Steeply che la parola Usa "fanatico" deriva dal latino e vuol dire, letteralmente, "adoratore del tempio". I nostri attaccamenti sono ciò che noi adoriamo, dice Marathe, ed è importante, in questa prospettiva, scegliere con cura la nostra fonte d’idolatria. Affidarci a un tempio instabile può essere un errore fatale. Quando Steeply avanza una critica, in nome di una scelta che non è mai una scelta quando è spinta dall’amore, Marathe gli risponde che dedicare la propria vita a una persona è una follia: «Le persone cambiano, partono, muoiono, si ammalano. La tua nazione ti sopravvive. Una causa ti sopravvive». L’amore ti rende schiavo di una serie di soggettivi che hanno poco a che vedere con la realtà. In quel caso il tempio diventa il sentimento in sé, un rifugio vuoto: «sei solo e isolato, in ginocchio di fronte a te stesso».
I protagonisti di Infinite Jest sono persone sole, vittime dei loro templi. Gli studenti dell’ETA sono addestrati a desiderare il successo come una forma di affermazione personale: «Sembra che l’arrivare dal nulla e vincere ti abbiano creato». Sono dipendenti dai ritmi serrati, dagli allenamenti all’alba, dal sudore del compagno, da un senso di comune solitudine che i professori assecondano e incoraggiano perché stimola la competizione. I residenti della Ennet House hanno scelto di rifugiarsi in un tempio chimico perché non hanno avuto la forza di gestire i loro veri attaccamenti. «Se sei dipendente ne hai bisogno, Hallie, e se ne hai bisogno che cosa pensi che succeda se alzi la bandiera bianca e cerchi di andare avanti senza di lei, senza niente?». I genitori dipendono dai figli, dall’idea che i figli hanno di loro. E i figli si aggrappano ai giudizi dei genitori, perché se chi ti ha donato la vita non riesce ad apprezzarti, come potrà farlo qualcun altro? Tutti dipendiamo da una Sostanza, in qualche modo. Ognuno di noi ha un tempio d’adorazione, legato al cuore con un doppio filo di piacere e dolore. E Infinite Jest, l’Intrattenimento mortale, è la concretizzazione di tutto questo: la massima espressione della Dipendenza.
A volte negli ultimi tempi mi sembrava una specie di miracolo nero che qualcuno potesse tenere tanto a un argomento o a un’impresa, e potesse continuare a tenerci tanto per anni. Che potesse dedicarvi tutta la vita. Mi sembrava ammirevole e patetico allo stesso tempo. Forse non vediamo l’ora, tutti, di dedicare la nostra vita a qualcosa. Dio o Satana, politica o grammatica, topologia o filatelia — l’oggetto sembrava puramente incidentale rispetto a questo desiderio di dedicarsi completamente a qualcosa. Ai giochi o agli aghi, o qualche altra persona. C’era qualcosa di patetico. Una fuga-da sotto forma di un tuffarsi-in. Ma esattamente una fuga da cosa?
La scrittura di David è piena di piccoli grandi regali come questo: pagine e pagine di dettagli, più o meno importanti, note, nomi e riferimenti. Poi una rivelazione, la veduta dalla cima. Come se volesse ogni volta metterti alla prova. L’obiettivo di Wallace era quello di mantenere il rapporto costi/benefici a un livello che andasse a vantaggio del lettore, sperando che le ricompense ripagassero gli sforzi. Se il lettore si sentiva tradito, o stanco, o illuso, lui aveva fallito. Ho letto questo libro con gli amici del gruppo di lettura e affrontarlo insieme è stata la scelta giusta: ci siamo sostenuti nei momenti di stallo, abbiamo riso di note interminabili (le note hanno le note!) e ci siamo confrontati su quei capitoli che sembravano non avere alcun senso. Ma alla fine non sono riuscita a stare al passo con le tappe perché la voglia di sapere era diventata ingestibile. Hal, Orin, Mario, Don Gately, Marathe, Joelle, tutti loro prendono parte alle tue giornate, settimana dopo settimana, e lasciarli diventa difficile. Lasciare David è ancora più complicato, lasciarlo dopo averlo letto tanto e per così tanto tempo. È che, una volta che hai imparato a conoscerlo, non puoi fare a meno di vederlo dietro ogni frase, in ogni piccolo grande dono che rivolgeva al lettore, ma che in realtà concedeva a se stesso.
L’immagine più famosa di Il secolo americano visto attraverso un mattone è la corda di un piano che vibra — sembrerebbe un re alto — che vibra e il suono è davvero una sola nota molto dolce e disadorna, e poi entra nell’inquadratura un piccolo pollice, un piccolo tondo, umidiccio, pallido eppure nerastro pollice, con quella roba disdicevole incrostata in uno degli angoli dell’unghia, piccolo e senza peli, chiaramente il pollice di un bambino piccolissimo, e appena tocca la corda del piano il suono alto e dolce muore immediatamente. E il silenzio che segue è straziante. Più tardi nel film, dopo molte panoramiche intense e didattiche sul mattone, eccoci di nuovo alla corda del piano, e il pollice non c’è più, e il suono alto e dolce ricomincia, assolutamente puro e solo, eppure ora in qualche modo, mentre il volume aumenta, ora c’è qualcosa di marcio sotto, qualcosa di troppo dolce e troppo maturo e potenzialmente putrido nel re alto e chiaro mentre il volume aumenta, e il suono diventa più puro e più forte e più disforico finché dopo solo un paio di secondi ci troviamo in mezzo a un suono puro e fortissimo e speriamo e forse preghiamo che il pollice del bambino ritorni, per farlo smettere.
***
Alcune citazioni riportate nell’articolo sono tratte da:
Un antidoto contro la solitudine, David Foster Wallace. Minimum fax, 2013.
Traduzioni di Sara Antonelli, Francesco Pacifico e Martina Testa.
Finalmenteeee! Sono mesi che osservo silenziosamente da esterna su Fb le vicende del gruppo di lettura su questo libro infinito e totalizzante (da me temutissimo! Non lo leggerò mai e poi mai. Però ho letto il tuo post ed è amabile, anche senza aver letto il romanzo) e aspettavo il tuo ritorno alla libertà e al resto del mondo letterario (magari quello che ci accomuna!). Bentornata ;)
RispondiEliminaUn modo più carino per dire: "Tu e Wallace c'avete rotto!" non l'avresti trovato! Però capisco che la monogamia letteraria alla lunga possa tediare. Ora sto leggendo una raccolta di racconti di autori italiani (L'età della febbre): da un estremo all'altro!
EliminaFelice di potermi confrontare di nuovo con te :)
Margherita, non lo leggerai mai e poi mai ? Ma cosa ? E perché ? Se vuoi un parere, a non leggerlo si commette un imperdonabile errore !
EliminaAspettiamo trepidanti.
RispondiEliminaNon ci posso credere! È come se avessi affrontato un parto (durato tre mesi). Uno si aspetta, che so, tante pacche sulla spalla, sorrisi di approvazione, magari anche un brava e invece: "L'hai fatto? Bene. Ora togliti dai coglioni tu e questo bambino. Che poi a guardarlo non è manco così carino, te lo voglio dire!".
EliminaCioè, vi amo.
Per il momento mi faccio bastare i racconti: sono brevi e più facili da "gestire", per me.
RispondiEliminaPerò, dai, sei stata brava a tener duro e ad arrivare in fondo ;)
(dici che si vede che l'ho scritto apposta?)
A me il libro è piaciuto (è evidente): continuo a chiedermi com'è possibile che un essere umano, da solo, concepisca una cosa come questa. Ma nei racconti lui è qualcosa di magnifico. Forse lo preferisco lì. Oppure, è che preferisco i racconti in genere, e allora la cosa è conseguenziale. Ma ne abbiamo parlato, sai che lui è la mia "debolezza"!
EliminaLa pacca sulla spalla me la prendo, che sia falsamente vera, o veramente falsa.
:)
Non so se avrò la forza di leggerlo. Non di prenderlo in mano, questo libro, ma di spingere altrove gli altri. Però sono contento che sia terminabile. :)
RispondiEliminaAlcuni ne dubitano. Meglio diffondere la notizia!
EliminaIo nella mia follia ho letto questo libro due volte. Trovo che sia meraviglioso,credo che lo rileggerei pure una terza volta,magari in futuro. Tutto questo timore riverenziale preclude a molti un'esperienza di lettura davvero particolare. Ciò detto,interessante anche il modo in cui hai deciso di scriverne.
RispondiEliminaGrazie! Non è così una follia rileggerlo una seconda volta. Io sono molto tentata, lo ammetto; solo rileggendolo puoi collegare certi passaggi che a prima vista sfuggono a tutti (o quasi).
EliminaAmmirazione prima di tutto.
RispondiEliminaArticolo meraviglioso.
C'è anche da dire che ho i bicipiti un tantino più sviluppati! ;)
Eliminadi cosa parla infinite jest? leggilo! :) è un libro che parla di tante solitudini ma il perosnaggio di don g ci lascia un po' di speranza.. possiamo anche scegliere di affrontare il nostro dolore superando le dipendenze da piacere sintetico..
RispondiEliminaEsatto. :)
EliminaNon ricordo se ieri sera è venuto fuori, ma io penso che lui abbia chiuso su Don G. anche per questo, per lasciare uno spiraglio.
Ma a noi, adesso, chi è che ci curerà dalla dipendenza?
Ciao!
RispondiEliminaNon posso fare a meno di concordare con te. Il libro l'ho letto interamente IN LINGUA e c'ho messo quasi tre mesi buoni per leggerlo tutto (comprese le note delle note).
Trovo questa recensione non solo bellissima ma anche delicata nel tuo descrivere David da lontano. E ancora non compro quella Einaudi perché costa "troppo":D
1300 pagine di cui 800 di noia assoluta e e altre di meravigliosa letteratura. Il problema è che sono incastrate una dentro l'altra. Almeno un finale però poteva regalarcelo. EGOISTA.
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