C'è questa donna, si chiama Sara, Sara Tetwick ex Tooney ora Masoli, un cognome per ogni marito. Ma ora, nel deposito LifeSolution H24, c'è solo Sara. Sara raggiunge il box n. 592 per recuperare una bistecchiera lasciata lì qualche tempo prima. Armeggia col catenaccio, alza la serranda e viene sopraffatta dalla quantità di scatoloni che occupano la stanza. Neanche ricordava ce ne fossero così tanti. Cosa ci sarà dentro? E dove sarà la bistecchiera? Sara si avvicina e sposta qualche scatola più piccola per farsi spazio. Osserva gli oggetti con uno sguardo che è nuovo e antico: appena qualche secondo è il tempo che impiega a distinguere i vestiti di quand'era ragazza, il manubrio rosa della bicicletta di sua figlia Alexis e tutte le sue bambole. C'è una scatola sul fondo. C'è scritto Brian con una calligrafia che Sara non riconosce. Poi però ricorda, e ricorda che quando successe — quando Brian Tooney morì nell'attentato terroristico dell'11 settembre — di tutte queste cose se ne occupò sua sorella. Queste cose. Perché è questo, no? Di questo stiamo parlando: cose. «Sono solo cose». Sara continua a ripeterselo, quando esamina il contenuto della scatola. I primi a comparire sono gli occhi di Brian, nella foto del necrologio apparso sul giornale del giorno in cui morì. Rileggere l'articolo le dà una sensazione strana: non è più arrabbiata, adesso, anche se lui l'aveva tradita e lei l'aveva scoperto, anche se lui era morto prima che lei potesse chiedergli il conto. È come se avvertisse una leggera pressione, un dolore che c'è sempre stato da qualche parte dentro di lei ma che non aveva mai saputo riconoscere. Nella scatola non manca niente: foto di loro insieme, felici da qualche parte. Sara che abbraccia Alexis, Alexis sulle spalle di Brian, Brian sulla pista da ballo nel giorno del loro matrimonio. Ci sono i biglietti dello spettacolo che videro a Brodway nel 1998. Ci sono i gemelli di Brian, un paio di annuari e una boccetta di acqua di colonia di Carolina Herrera. Sara apre la bottiglia, ne spruzza un po' sul polso e non può fare a meno di ammetterlo: in quel profumo, in quel box da 59 dollari al mese, Brian continua a esistere. Sara non aveva mai sentito la sua presenza, così forte, in un altro luogo. Perché lui non se n'era mai andato: era rimasto lì, dentro quelle scatole.
Sono solo alcune delle domande a cui prova a rispondere Jonathan Miles. Il libro è composto da tre vicende indipendenti; tre personaggi percorrono strade diverse (delineate da intenti critici differenti) ma arrivano tutti alla stessa conclusione: gli scarti ci rappresentano. E ci rappresentano anche nostro malgrado. Attraverso storia di Talmadge e Micah, lo scrittore ci suggerisce quanto l'accumulo, e il relativo spreco, siano sintomi di uno stile di vita saturo e morboso. Il punto è: non è degno di essere definito civile un popolo che non avverte come pressante il problema della scarsità delle risorse. L'iperciviltà diventa non-civiltà. Poco prima della metà del romanzo, Micah spiega perché ha deciso di vivere del cibo trovato nei cassonetti. È una scelta drastica, quanto mai applicabile, ma è interessante capire il senso del discorso, e il discorso fa più o meno così:
Hai mai visto un allevamento di polli? (...) Tengono le galline a testa china tutto il tempo, così il petto viene ipersviluppato. Gli tagliano il becco perché se non lo fanno le galline si beccano a morte per lo stress. Usano le luci artificiali per alterare il ciclo sonno-veglia così le galline mangiano il più possibile, tutto il tempo. Diffondono musica soporifera da sala d'attesa per impedire alle galline di ribellarsi. Le imbottiscono con dosi massicce di antibiotici perché altrimenti, in quelle condizioni diciamo... artificiali, le galline morirebbero. Ma molte muoiono lo stesso, per questa cosa chiamata ascite. È quando il cuore e i polmoni non riescono a sostenere una crescita così rapida. Le galline crescono a morte, ok? Troppo e troppo in fretta.
A Elwin, il protagonista della terza storia, spetta il compito più ardo: portare la questione a un livello superiore, tracciando un filo che lega il nostro presente al futuro di quelli che verranno. Perché se è preoccupante il pensiero di quanto di noi resterà nel mondo, ancor più allarmante è immaginare quanto di questo mondo resterà alle nuove generazioni. Elwin è un linguista coinvolto in un progetto governativo per la messa in sicurezza di una discarica di residui nucleari nel New Mexico. Come dice suo padre, quando l'alzheimer non gli appanna troppo i pensieri: «lo scopo della vita è essere un buon antenato». Elwin deve studiare un messaggio che resista nel tempo; deve trovare un modo per avvertire l'umanità e difenderla dalle scorie del progresso. Ma Elwin non è capace di proteggere neanche se stesso dalla contaminazione degli scarti. È vittima degli avanzi di un matrimonio fallito, dei buchi nella memoria di suo padre e dei chili di troppo che non riesce a smaltire. Ha vissuto accumulando negatività e ora è costretto a sopportarne il peso. Ha permesso che gli scarti diventassero la sua vita e la sensazione di obsolescenza che prova è insopportabile.
Elwin lo guardò, le guance rigate di lacrime, gli occhi già arrossati. «Che me ne faccio», lo supplicò, «di tutta questa roba?»
Scarti è un libro molto ambizioso, che utilizza la questione ecologica per criticare il sistema-società in senso lato. È un libro di denuncia, che qualche volta cade nella sua stessa trappola, prendendo un po' le sembianze di un manifesto politico. Ma nel complesso è un esperimento riuscito: è un romanzo di sentimenti autentici, grandi ideali e un finale tutto da scoprire.
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Bella recensione Maria...
RispondiEliminaLo leggerò anchi'io.
:)
Grazie! Fammi sapere la tua opinione. Questo è un libro che ho letto insieme ad altri amici del gruppo di lettura. Ne abbiamo parlato un bel po' perché ha suscitato in noi diverse riflessioni.
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