(Una rubrica che è un po’ una scusa per parlare delle mie storie preferite. Ti racconto un racconto, mi fermo a un certo punto. Lascio a te il compito di scoprire come va a finire.)
The Yellow Wallpaper è un racconto di Charlotte Perkins Gilman del 1892. È una storia angosciante eppure molto semplice, un racconto di appena 6.000 parole scritto in soli due giorni dopo che l’autrice ebbe un grave attacco di psicosi post-partum. Tendenzialmente autobiografico, potremmo azzardare. La carta da parati gialla nasconde una doppia denuncia: contro la terapia del riposo, la cura del Dottor Silas Weir Mitchell alla nevrastenia, e contro i soprusi familiari (è stato rivalutato come uno dei primi racconti di stampo femminista). E poi è una storia di ossessioni, un testo del terrore tra i più famosi. Uno tra i miei preferiti, senza dubbio.
A pensarci bene, c’era qualcosa di strano: una villa coloniale, una proprietà così ben tenuta eppure libera da tanto tempo. Che fosse in qualche modo occupata, come dire... infestata? Quando lei lo disse a suo marito John, lui scoppiò a ridere. Lei aveva sempre avuto la mania d’inventare storie e questa era solo una delle sue tante fantasie. Erano andati lì per l’estate perché lei non era stata troppo bene nell’ultimo periodo. John era uno psicologo e pensava che la moglie avesse un piccolo esaurimento nervoso, ma si sarebbe ripresa in fretta se avesse seguito i suoi consigli. John pensava che la capacità d’immaginazione di sua moglie la indebolisse, le consigliò di utilizzare le sue energie per guarire. In realtà a lei sarebbe piaciuto lavorare, anche solo per distrarsi, ma John era imperativo su certi argomenti, così amorevole su tutto il resto che anche solo il pensiero di contraddirlo la faceva sentire in colpa. Avrebbe preferito una stanza che affacciasse sul giardino, la casa aveva un giardino bellissimo, ma John decise che la camera adatta a lei era quella al primo piano. Dopotutto non era così terribile: l’arredamento era spartano ma accettabile. Solo quella carta da parati, così di cattivo gusto. Era di un colore repellente, rivoltante: una sorta di giallo sporco e sbiadito, una sfumatura che cambiava appena sotto la luce diretta del sole. Forse John non credeva che lei stesse così male. O forse sì, ma non quanto lei sentiva di stare male. John le dava dei fosfati, qualcosa del genere. Eppure passavano i giorni e lei era sempre stanca, stanca di pensare, di essere sola e di essere lì, in una stanza così silenziosa e così stretta, stanca di quella carta da parati così opprimente. Il motivo che si riproponeva sulla carta creava delle forme arrotondate, come dei bulbi oculari. Si alternavano lungo tutta la parete: occhi impassibili, occhi ovunque. Sembrava che saltassero fuori dal muro. Lei non aveva mai visto tanta espressione in qualcosa di così inanimato. John a casa non c’era mai, e anche se ci fosse stato non avrebbe parlato con lei della sua malattia. Lui avrebbe pensato a tutto, avrebbe fatto sempre il suo bene, diceva. Anzi, avrebbe riso delle sue insicurezze, di tutte le sue paure. Avrebbe riso di lei, come in quel momento ridevano tutti gli occhi che la fissavano dalle pareti. La carta da parati nascondeva un’altra trama, in una sfumatura di un giallo più cupo. Era particolarmente irritante, benché non si riuscisse a vedere spesso, non così chiaramente. Era come una forma umana, sembrava una donna, china verso il basso che strisciava dietro il disegno. C’erano cose, in quella carta da parati, che nessuno sapeva, a parte lei.
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Non la conoscevo! E il racconto sembra adatto per essere incluso nelle case infestate più belle mai lette.
RispondiEliminaTi piacerà. Con questo racconto vinco facile ;)
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