Quando cominciò a scrivere, Thomas Wolfe voleva scrivere tutto.
Dopo Angelo, guarda il passato (1929), aveva in mente un libro enorme, che avrebbe rappresentato quello che per Proust fu la Recherche o La commedia umana per Balzac. Quattro volumi dedicati a ciò che lui riteneva due dei più profondi impulsi dell’uomo: «peregrinare per sempre e di nuovo sulla terra». Aveva scelto anche il titolo, sarebbe stato The october fair.
La vita sembra una grande fiera, diceva Wolfe: compriamo, vendiamo, qualche volta contrattiamo, amiamo, odiamo, certe volte moriamo. Niente di più, niente di meno di questo. Parlava sempre di libro, né di romanzo né di opera, utilizzando addirittura il soggetto “he” riferendosi al testo. Ottobre fu anche il mese in cui morì suo padre, prima che lui potesse vederlo un’ultima volta. «Sono tornato di nuovo a casa in ottobre, e non c’erano porte dove potessi entrare, e sapevo di non poter più fare mia questa vita».
Secondo Wolfe, ed è questo il sottotesto di tutta la sua produzione, ogni uomo vive alla continua ricerca del proprio padre. È un libro che non portò mai a termine, forse perché i progetti che si basano su quest’ambizione non hanno mai una vera fine. Da quel lavoro incompiuto, che arrivò a contare un milione di parole, Max Perkins ricavò Il fiume e il tempo (1935) e i frammenti che compaiono nell’antologia Dalla morte al mattino.
Non sono veri e propri racconti, il critico Nuhn Ferner li definì più correttamente prosimetri, brani che accolgono l’alternanza tra prosa e poesia. Sono ritratti che si concentrano sui fondamentali della nostra esistenza: Vita, Morte, Guerra, Patria. E così, da questa prospettiva, Dalla morte al mattino è la corretta testimonianza di quell’intenzione che aveva Wolfe, l’idea di scrivere tutto, di ogni uomo di ogni tempo, a partire da se stesso.
La scrittura di Wolfe non aveva alcun fondamento tecnico, nessuna architettura di base. Cresciuto in una famiglia modesta, ultimo di otto figli, Wolfe sviluppò un carattere complesso. Si avvicinò alle opere dei più grandi scrittori, Milton e Swift, Shakespeare e Omero, con una passione travolgente. Ma più leggeva, più imparava, più sentiva il peso dalla consapevolezza di tutto quello che ancora non sapeva, e «quel verme che mi divora di nuovo il cuore» tornava a tormentarlo. Wolfe confessa di aver passato la maggior parte delle sue notti a compilare liste di tutto quello che non aveva ancora fatto. Sdraiato sul letto con gli occhi rivolti al soffitto, si angosciava per quella parte di mondo che non conosceva, lo immaginava come una mappa che si svolgeva a partire dai suoi piedi e continuava all’infinito. Sentiva d’impazzire al pensiero di tutta quella terra che non aveva ancora calpestato, e allora riempiva altre liste, piene di appunti di come e quando avrebbe conquistato le città, le donne, i libri, tutto ciò che ancora non aveva. Ma il sollievo durava poco meno della notte.
Nell’introduzione alla raccolta, il traduttore Jacopo Lenkowicz riesce a centrare in una sola frase la spinta che ha prodotto tutta la narrativa di Wolfe, il suo più grande pregio che è anche il suo difetto: «Non c’è confine tra la vita del corpo e la scrittura, l’una procede dall’altra e all’altra ritorna secondo un moto di trasfigurazione circolare». Viveva per scrivere, alimentato da un circolo vizioso che lo riconduceva a se stesso. Ecco perché durante un racconto può accadere che Wolfe abbandoni il filo della storia perdendosi in un’ode, un inno o un omaggio; all’Orgogliosa Sorella Morte, al Volto della guerra, per soddisfare l’esigenza di comunicare qualcosa che gli appariva sempre più importante, assecondando la tendenza lirica coniugata dai suoi maestri. Ma sentiva di non riuscire a rendere il suo messaggio attraverso la scrittura, non come avrebbe voluto, e allora colmava quel vuoto aggiungendo altre parole, una dopo l’altra in un ritmo sempre più frenetico:
So che la porta non è ancora aperta, so che la lingua, la parola, il linguaggio che io cerco non è ancora stato trovato, ma credo con tutto il cuore di aver trovato la via, di aver aperto un varco, di aver mosso il primo passo. E credo anche, con tutto il cuore, che ogni uomo a suo modo, ogni uomo che spera di trarre energia vitale dalla forza e dalla sostanza della sua vita deve trovare questa via, questa parola, questo linguaggio e questa porta – deve trovarlo da sé come ho cercato di fare io.
Sono soprattutto le piccole distanze, gli spazi impercettibili, che danno a Wolfe la materia per le sue storie. Come la nota implicita nel racconto Gulliver – Storia di un uomo alto (un omaggio al personaggio di Swift): appena un respiro ci separa dalla persona che abbiamo di fronte, eppure non potrebbe essere più lontana se fosse su un altro pianeta. Viviamo a pochi centimetri dalla luce, ma siamo inchiodati nell’ombra dalla nostra stessa natura.
La felicità è sempre a un passo dall’accadere, «vicina a me come la mia mano se solo avessi potuto toccarla, a un palmo di distanza se fossi riuscito a raggiungerla, una parola in più se avessi saputo pronunciarla». Un elemento ricorrente in questi frammenti è la porta, il simbolo del passaggio da una condizione di angoscia a uno stato di grazia intravisto e mai raggiunto. Nel primo racconto, titolato appunto Nessuna porta: storia del tempo e dell’erranza si sviluppa questo concetto, che poi si ripropone come un mantra in tutti gli altri scritti di Wolfe. Così come il tempo, la luce e il mattino, il buio e la morte.
Per contro, è la stessa condizione di potenziale irrisolto a risvegliare gli animi, in un moto di rivolta. La mancanza più che il possesso, il desiderio più che la soddisfazione, è l’appiglio degli uomini che cercano di trovare un senso alla loro esistenza. È quella ricerca, che smette di guardare fuori e parte da dentro, che permette grandi sogni e imprese eroiche, quella su cui i poeti hanno fondato i loro versi, raccontando di quell’attimo in cui il sole ha illuminato per poco le loro vite. Questa è forse la conclusione a cui anche Wolfe si stava avvicinando, la chiave che avrebbe potuto aprire tutte le sue porte e zittire quell’inquietudine che aveva nel cuore.
E dal grigio opprimente dei loro cieli hanno estratto l’oro, dalla fame cibo sontuoso, e dalla cruda desolazione delle loro vite la magia. E quel che hanno di bello è stato conquistato a fatica, lottando contro la piattezza, lo squallore e il dolore delle loro vite, ma una volta conquistato era quanto di più raro e bello potesse trovarsi su questa terra.
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Dalla morte al mattino. Carta canta editore, 2014. Traduzione di Jacopo Lenkowicz.
Storia di un romanzo. Fazi editore, 1997. Traduzione di Igina Tattoni.
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