(Scrittori allo specchio mette gli scrittori di fronte ai loro personaggi per provare a capire dove finisce uno e inizia l’altro. È davvero così netto il confine tra verità e finzione?)
Le scatole cinesi, per esempio. Le scatole cinesi sono contenitori, di grandezza crescente, che possono essere inseriti l’uno nell’altro. Come le matriosche russe. La finanza aziendale ci spiega che le scatole cinesi sono meccanismi di controllo indiretto: la scatola principale (la holding) controlla una società, che controlla una società, che controlla un’altra società. I personaggi di Roth sono scatole cinesi. Nathan Zuckerman è stato eletto ad alter ego ufficiale, ma ne esistono molti altri: il Philip Roth di Operazione Shylock, oppure il Philip di Inganno, lo scrittore che tradisce la moglie con una donna che, fino alla fine, non sappiamo se sia reale o un personaggio di fantasia. Ognuno sembra contenere l’altro, e tutti sembrano contenere la vera storia di Philip Roth. O è quello che vogliono farci credere. Il mio è solo un gioco, una specie di nascondino; io sono quella che cerca di trovare lo scrittore che si nasconde dietro le parole. È complicato, soprattutto quando il confine tra fiction e autobiografia diventa così sottile. Ma con Roth è ancora più difficile; tutto è fraintendibile perché tutto sembra ricondurre a lui.Lontano da tutti gli ebrei, e tuttavia è impensabile un suo racconto senza un ebreo.
Nathan Zuckerman appare nei romanzi di Philip Roth sia come protagonista che come narratore. Il primo ciclo comprende quattro libri:
– Lo scrittore fantasma (The Ghost Writer,1979)
– Zuckerman scatenato (Zuckerman Unbound, 1981)
– La lezione di anatomia (The Anatomy Lesson,1983)
– L'orgia di Praga (The Prague Orgy,1985)
A cui si aggiungono:
– La controvita (The Counterlife, 1986)
– Il fantasma esce di scena (Exit ghost, 2007)
Come narratore, Nathan compare nei romanzi che formano la cosiddetta Trilogia americana:
– Pastorale americana (American Pastoral, 1997)
– Ho sposato un comunista (I Married a Communist, 1998)
– La macchia umana (The Human Stain, 2000)
In realtà, la prima apparizione di Nathan Zuckerman risale al 1974, in La mia vita di uomo (My life as a man). Il libro è diviso in due parti. Nella prima parte, Utili finzioni, Nathan è il protagonista di due racconti: Anni verdi e Corteggiare il disastro. Nella seconda parte, La mia vera storia, scopriamo che il narratore è lo scrittore Peter Tarnopol che, attraverso Nathan, ha cercato di raccontare se stesso; un esperimento metaletterario finalizzato a esorcizzare il ricordo ossessivo della moglie. Quindi, Nathan Zuckerman è l’alter ego di Peter Tarnopol che è l’alter ego di Philip Roth. E questo è solo il primo romanzo.
All’inizio: Lo scrittore fantasma
«Come vorrebbe essere chiamato?» chiese Emanuel Isidore Lonoff. «Nathan, Nate o Nat? O ha qualche altra preferenza completamente diversa?».
La storia del primo capitolo di Zuckerman si svolge tutta in una sera di dicembre del 1956. Nathan ha ventitré anni, ha pubblicato un racconto scomodo che ha avuto un discreto successo. Ha un’adorazione per Emanuel Isidore Lonoff, uno scrittore che vive nel New England insieme a sua moglie Hope. Lonoff, poco incline ai rapporti umani, conduce la sua vita in uno stato d’isolamento ma, contro ogni aspettativa, decide d’accogliere il giovane scrittore. Nelle prime pagine del romanzo, Lonoff chiede a Nathan di raccontarsi, e molti sono i punti di contatto tra la vita di Zuckerman e quella di Roth. Come Philip, Nathan è stato allevato «da adoranti genitori in un quartiere né ricco né povero di Newark». Nathan ha un fratello minore e ha studiato «in un buon liceo del posto e in un college eccellente». Roth aveva un fratello di nome Sandy, di cinque anni più grande, si è laureato alla Bucknell University e ha proseguito con il master alla Chicago University in letteratura anglosassone. Tra la fine dei suoi studi e la pubblicazione del suo primo romanzo, nel 1959, Roth ha servito per due anni l’esercito degli Stati Uniti d’America. Nathan ha partecipato alla guerra di Corea. Durante il suo periodo di permanenza a Chicago, Roth ha incontrato Saul Bellow, al quale i critici attribuiscono l’ispirazione per il personaggio di Lonoff. Quella sera di dicembre, a casa dei coniugi Lonoff, c’è un altro ospite: Amy Bellette. Amy è una studentessa, allieva e amante di Lonoff. Nathan ascolta una conversazione in cui Amy chiede a Lonoff di fuggire insieme. Ma chi è Amy? Ha poco meno di trent’anni, grandi occhi neri e una fronte spaziosa. È una ragazza senza famiglia, con un passato misterioso alle spalle. Che sia Anne Frank? È questa la conclusione a cui arriva Nathan. Improbabile, ma possibile. Perché non dovrebbe? E se lo fosse? Se lo fosse, Nathan potrebbe anche sposarla. Sposare Anne Frank e far pace con gli ebrei.
Negli ultimi tempi in famiglia avevamo avuto grossi guai proprio a causa di un mio nuovo racconto. Lui era rimasto talmente sbigottito da ciò che avevo scritto che era corso dal suo mentore morale, un certo giudice Leopold Wapter, a pregarlo di parlare con suo figlio per fargli intendere ragione. Di conseguenza, dopo due decenni di un dialogo amabile e più o meno ininterrotto, io e mio padre non ci parlavamo da quasi cinque settimane, e io ero andato a cercare una convalida patriarcale altrove.
Il 14 marzo del 1959 sul New Yorker apparve The defender of the faith, il racconto del sergente Marx, della recluta Grossbart e della loro non convenzionale ebraicità. Alla redazione, lo stesso giorno, arrivarono migliaia di lettere di protesta: la comunità ebraica era disgustata dal modo in cui Roth aveva delineato i suoi personaggi; era inaccettabile che uno scrittore ebreo scrivesse di un altro ebreo come di un uomo viziato, scaltro e ipocrita. La polemica non fermò il successo del racconto (incluso successivamente nella raccolta Goodbye, Columbus and five short stories grazie alla quale vincerà il National Book Award) ma attribuì a Roth una paradossale etichetta di “scrittore ebreo antisemita”. I rapporti tra gli ebrei e Roth peggiorarono con l’uscita di Lamento di Portnoy (Portnoy's Complaint, 1959), un intero monologo condotto dal lettino di uno psicanalista; è la storia tragicomica di Alexander Portnoy, un ebreo americano, fortemente legato alle tradizioni, vittima di una nevrosi causata dalla sua morbosità sessuale. «La gente non legge pensando all’arte: legge pensando alle persone» risponde papà Zuckerman, quando il figlio cerca di spiegare ai genitori che la verità narrativa non è una verità assoluta. E comunque, gli ebrei non sono martiri per condizione congenita.
— Non siamo i disgraziati di Belsen! Non siamo le vittime di quel delitto!
— Ma potremmo esserlo… Al loro posto lo saremmo. Nathan, per gli ebrei la violenza non è una novità, lo sai!
— Mamma, se vuoi assistere a qualche atto di violenza fisica contro gli ebrei di Newark, va nel reparto di chirurgia plastica dove le ragazze si fanno rifare il naso. Ecco dove scorre sangue ebraico nella Essex County, ecco dove il colpo viene inferto… col mazzuolo. Alle loro ossa… e al loro orgoglio!
Nel mezzo: identità e isolamento
Sull’identità, Roth ha scritto per tutta la vita. Un segreto d’identità è la questione che affligge Coleman Silk in La macchia umana, una crisi d’identità colpisce Seymour Levov, lo svedese di Pastorale americana, quando sua figlia con un folle gesto mette in dubbio tutta la loro esistenza. È una questione che angoscia Roth tanto quanto lo affascina: è il motore che alimenta la sua follia dell’arte, ed è un problema di confini: tra un uomo e un ebreo, tra un religioso e un fanatico, tra uno scrittore e un personaggio. Tra l’essere e l’apparire, tra la realtà e la finzione. I personaggi di Roth cercano di svicolarsi dal ruolo che sono costretti a interpretare (dalla famiglia, dalla società, dai loro stessi principi); per far sì che ciò avvenga si allontanano (dalla famiglia, dalla società, dai loro stessi principi) ma poi soffrono della condizione d’isolamento perché, avendo distrutto ogni legame, non riescono più a identificarsi in una specie. Sono temi che si ripropongono continuamente, come in Zuckerman scatenato, nel quale Nathan affronta le conseguenze del successo del suo romanzo, Carnovsky. I lettori non riescono a distinguere l’autore dal suo libro, così come accadde a Roth per Portnoy. Nathan evita di mostrarsi in pubblico, si allontana dagli amici e si ritira dal mondo per riflettere su se stesso. In La lezione di anatomia, Nathan ha già perso suo padre (morto nel capitolo precedente). Ha un forte dolore alla schiena che i medici non riescono a diagnosticare, ma così invalidante da impedire ogni movimento, e anche scrivere diventa impossibile. Nathan torna all’università, s’iscrive a medicina, con la speranza di riuscire a capire da solo l’origine del suo male. L’orgia di Praga è un primo epilogo e un omaggio a Praga, una città che per Roth è sempre stata importante. In questo libro, Zuckerman viene contattato da uno scrittore in esilio, Zdeněk Sisovský e si reca a Praga per recuperare un manoscritto di uno scrittore yiddish ucciso dai nazisti (è la Praga degli anni 70, in piena occupazione sovietica).
Le relazioni di Philip Roth sono sempre state dominate prima dalla passione e poi dal rancore. Aveva ventisei anni quando Margaret Martison Williams, una vecchia fidanzata conosciuta a Chicago, si presentò alla porta del suo appartamento di Manhattan. «Positivo nel senso che non è incinta e io sono libero?». I due si sposarono nel 1959. Il matrimonio si concluse nel 1963 e cinque anni dopo Margaret morì in un incidente stradale. La tragica fine di Margaret condizionò la narrativa di Roth, al punto che qualche traccia del carattere della donna compare in molti personaggi femminili. Claire Bloom è un’attrice conosciuta negli anni settanta, che Roth sposa nel 1990. Nel 1994 Claire scopre che Philip la tradisce, i due si lasciano nel 1994 e nel 1996 lei pubblica Leaving a doll’s House, un libro nel quale descrive nel dettaglio la sua vita con Roth utilizzando termini poco piacevoli. Alcuni passaggi di Ho sposato un comunista sembra siano stati scritti come difesa alle accuse della Bloom. Nel 1987, Roth subisce un intervento chirurgico che, a causa di un trattamento sbagliato, si tramutò in un prolungato travaglio fisico e poi in un esaurimento nervoso. Questo fu un momento di grande depressione e un’occasione per Philip di ricapitolare sulla sua vita. Tutta la storia è raccontata in I fatti, autobiografia di un romanziere, pubblicato nel 1988. Il libro si apre con una lettera di Roth indirizzata a Zuckerman: l’uno informa l’altro di aver scritto un’autobiografia e vuole che lui, Nathan, lo aiuti a decidere se pubblicarla o meno. Per «tornare alla mia vita di prima, per ritrovare la mia vitalità, per trasformarmi in me stesso, ho cominciato a descrivere le mie esperienze quando erano ancora da trasformare». Alla lettera è allegata l’autobiografia, nella quale Roth racconta la sua infanzia, gli anni all’università, il rapporto tormentato con Claire Bloom, gli scontri con la comunità ebraica, fino agli anni Sessanta, fino alla pubblicazione di Portnoy. «Dal momento che I fatti, per me, hanno avuto più importanza di quanto possa sembrare, e poiché non ho mai lavorato, finora, senza che la mia immaginazione venisse stimolata da qualcuno come te o Portnoy o Tarnopol o Kepesh¹, non sono davvero in grado di giudicare da solo. Sii schietto».
Alla fine: Il fantasma esce di scena
Ogni cosa che lo scrittore costruisce meticolosamente, frase per frase e dettaglio per dettaglio, è un inganno e una bugia. Lo scrittore manca di un motivo letterario. Il suo interesse nel rappresentare la realtà è zero.
È il 2008, Nathan ha settantun anni. È uno scrittore di successo ma vive isolato tra i monti del New England. Non guarda la televisione, non legge i giornali. Ha sconfitto il tumore alla prostata, diagnosticato qualche anno prima, ma la malattia lo ha reso impotente. Non ha più rapporti con una donna da tempo ed è costretto a usare i pannoloni a causa dell’incontinenza. Ma c’è una cura che potrebbe aiutarlo a risolvere, o quando meno a ridurre, il suo problema: una nuova terapia basata sulle iniezioni di collagene, praticata da alcuni dottori newyorkesi. Nathan manca dalla città da quasi undici anni, e non sa se una speranza di guarigione valga il prezzo della sua solitudine. In una New York atrofizzata dal ricordo dell’11 settembre, Nathan incontra tre personaggi che metteranno in discussione qualche sua certezza. Sembra che in quest’ultimo capitolo Roth abbia voluto riassumere un po’ tutto il suo lavoro, cercando di chiudere i conti in sospeso; i tre fantasmi, infatti, rappresentano i temi che da sempre contraddistinguono la sua narrativa: la sessualità, la scrittura e l’ebraismo. Nathan incontra Jamie, una donna che stimolerà la sua fantasia erotica, riconducendolo a sensazioni a cui aveva rinunciato da tempo. E Richard Kliman, un giovane cronista che vuole pubblicare una biografia su E. I. Lonoff. Kliman ha intenzione di svelare a tutti il “grande segreto” dello scrittore ma Nathan si oppone al progetto con rabbia; non permetterà a nessuno di ledere la reputazione del suo maestro. Gli scambi tra Kliman e Nathan sembrano comporre un monologo che lo scrittore indirizza a se stesso, come se un Roth, più vecchio e più saggio, rimproverasse l’irruenza del giovane Roth. Forse, invidiandosi anche un po’.
Eccolo: l’indiscreto rigore del maschio giovane e pieno di vita, senza un sol dubbio sulla propria coerenza, accecato dalla sicurezza e dalla virtù di sapere cosa conta di più. Il senso inesorabile della necessità. (...) Quei giorni spettacolosi in cui non arretri davanti a nulla e hai sempre ragione. Ogni cosa è un bersaglio; vai all’attacco; e hai sempre ragione tu, solo tu. Il ragazzo invulnerabile che si crede un uomo e che non vede l’ora di recitare una parte importante. Be’, lasciamogliela recitare. Se ne accorgerà.
(...) io ti conosco. Tu sei giovane e sei bello, e non c’è nulla che ti dia più sicurezza dell’essere anche ambiguo. Hai il gusto dell’ambiguità. (...) Ti conosco: tu vuoi ottenere l’approvazione degli adulti che clandestinamente ti prepari a denigrare. Questo ti garantisce un astuto piacere, e insieme l’impunità.
Il terzo personaggio che (ri)compare nella vita di Nathan è Amy Bellette. Invecchiata, distrutta nella bellezza e nello spirito da un cancro al cervello, Amy non ha più il fascino di quella sera del 1956. Eppure, con la testa rasata per metà e una lunga treccia grigia che le cade sulla spalla sinistra, sembra ancora una ragazzina. Solo, più spaventata. Ha vissuto con Lonoff per quattro anni, poi lui è morto, e lei ha lasciato che la vita accadesse per il resto del tempo. Amy racconta a Nathan del suo vero passato mentre Roth percorre a ritroso quei sentimenti che l’avevano portato a sovrapporre l’immagine di Amy a Anne Frank, gli stessi a cui riesce a dare, finalmente, una spiegazione.
La loro denuncia dei miei racconti come sinistre manifestazioni di “autodenigrazione ebrea” non aveva mancato di pungermi sul vivo malgrado l’irritante rettitudine del loro autoincensamento al quale opposi tutta la mia avversione — e che contrastai trasformando l’Amy di Lonoff nell’Anne martirizzata che, con un pizzico di ironia, immaginai di voler sposare. Amy diventò la mia difesa romanzesca da quell'aspra accusa.
Dove si nasconde Philip Roth? In una casa colonica del Connecticut o dentro tutti i suoi libri? E quanta vita c’è nella sua letteratura? Quanta letteratura c’è nella sua vita? Ancora una volta, la risposta è davanti ai nostri occhi. Dobbiamo soltanto leggerla.
Il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un’intensità che nella vita è effimera e certe volte addirittura invisibile? Non per tutti. Per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più.
***
Le citazioni che accompagnano l’articolo sono tratte da:
Lo scrittore fantasma. Einaudi, 2015.
I fatti. Autobiografica di un romanziere. Einaudi, 2013.
Il fantasma esce di scena. Einaudi, 2004.
Traduzioni di Vincenzo Mantovani.
¹ David Kepesh è un’altra maschera inventata da Roth. Ebreo, professore di letteratura a New York, Kepesh appare in Il seno (1972), Il professore di desiderio (1977) e L’animale morente (2001).
Uno splendido ritratto e un'ottima analisi. Complimenti.
RispondiEliminaSe lo dici tu allora un po' sarà vero. Grazie :)
EliminaLetto d'un fiato. Con piacere e moltissimo interesse. Davvero ottimo.
RispondiEliminaGrazie, sono contenta ti sia piaciuto :)
EliminaQuesta rubrica mi piace sempre di più! Davvero un ottimo articolo! Tempo fa lessi Indignazione che esula un po' dagli altri libri che hai citato. Eppure anche lì i punti di contatto tra il protagonista del libro (Marcus Messner) e l'autore sono molteplici. E' come se Roth non potesse fare a meno di affacciarsi nei propri romanzi! PS: il protagonista di Indignazione studia al Winesburg College, Ohio ;)
RispondiEliminaTi ringrazio. Indignazione mi è piaciuto molto e sono d'accordo con te: anche in quella storia c'è un po' di Roth (molto di lui si riconosce nelle origini dei personaggi, come nel background di Marcus).
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