C’è una cosa che non vi ho raccontato, ed è il mio arrivo a New York. L’avevo immaginato tante volte, alimentando aspettative che non avrebbero mai potuto competere con la vita vera. E così è stato: l’aereo è atterrato un’ora più tardi e i controlli all’aeroporto sono durati più del previsto. Sembrava che tutto il mondo fosse concentrato nello stesso posto. Il ritiro dei bagagli, la metropolitana, l’arrivo in centro: tutto più lento di quel che doveva essere. Sono arrivata nei pressi del Tompkins Square Park, sulla 10th Street, con cinque ore di ritardo. Avrei dovuto ritirare le chiavi dell’appartamento in un locale poco distante, ma a quell’ora era già chiuso. Ho provato a chiamare il proprietario al telefono, che però non ha risposto. Mi sono seduta sulla valigia, non mangiavo da ore ma ero troppo stanca anche solo per pensare di andare a cercare qualcosa. Era passata la mezzanotte. Non riuscivo a vedere niente, niente di quel che avrei dovuto vedere, niente che potesse darmi indietro l’immagine di un incontro che avevo sognato per tanto tempo. «Illuminati, New York. Fatti guardare». Ma New York dormiva. Così silenziosa, non sembrava neanche reale. L’avrei capito qualche giorno dopo, che la città ha un suo ritmo da rispettare, che non può fermarsi per nessuno. È così che si difende. E poi perché avrebbe dovuto svegliarsi proprio per me? Io ero lì di passaggio, lei lo sapeva. Lo sapevo anch’io, anche se non volevo ammetterlo. Sarei andata via ancor prima che avessimo imparato a conoscerci. Ma dovevamo provare, almeno. Dovevamo darci una possibilità, in quel poco tempo che sarebbe durata tra noi.
Questa è la prima pagina della mia storia con New York, solo una delle tante possibili. New York stories, il libro, ne contiene molte altre. Innanzitutto: la storia della città di New York. I racconti sono disposti in ordine cronologico e rappresentano cinque fasi del Novecento. Paolo Cognetti, che ha curato la raccolta, ha scritto una prefazione e cinque brevi introduzioni per ogni periodo. La prima parte è dedicata a Gli anni ruggenti, i fatali Venti, quando «New York aveva tutta l’iridescenza degli inizi del mondo». La Grande Guerra è finita, i vincitori tornano a casa e la città ha una gran voglia di festeggiare. C’è un clima di forte tensione ma tutti cercano di non darci troppo peso: la classe operaia annega le preoccupazioni nell’alcol degli speakeasies, i bar illegali nati per aggirare le restrizioni del proibizionismo, i ricchi si distraggono organizzando cocktail party nelle sfarzose ville di Long Island. La seconda fase è La grande migrazione, quando l’Europa scappa a New York; ebrei, soprattutto, ma anche polacchi, ungheresi, italiani. Tutti si rifugiano nei tenements, tutti cercano di trasformare la loro occasione in una possibilità concreta. I love NY titola la terza parte, e rappresenta gli anni dal secondo dopoguerra a poco prima dell’età ribelle degli anni Sessanta. L’ultima fase è la Luminosa decadenza di New York; negli anni Settanta, dopo la seconda Depressione, la città si rialza, attraversa gli anni Ottanta, e poi crolla di nuovo, l’11 settembre del 2001. Ma New York nasce un’altra volta, New York rinasce sempre.
La seconda è la storia degli scrittori che scrivono di New York. Sono ventidue autori per ventidue racconti, eppure mi è sembrato di leggere sempre la stessa storia con un’opzione doppia sul finale. Perché ci sono due tipi di persone: quelle che arrivano a New York e ripartono in tempo, e quelle che restano. Il tempo è relativo: può essere un mese, un anno, un decennio. Il tempo per salvarsi. Chi lascia New York guarderà sempre alla città come a un miraggio, «uno di quei castelli incantati visitati dai personaggi delle leggende». Truman Capote è forse uno degli scrittori che ha interpretato meglio il sogno newyorkese; per lui la città era un po’ come la gioielleria Tiffany per Holly Golightly, un posto dove «non ti può accadere nulla di male». Dal racconto New York del 1946:
Mario Soldati, nel suo Italo-americani, riporta la testimonianza di chi, nonostante tutto, quel sogno non vuole lasciarlo andare. Gli emigranti, come tanti Arturo Bandini, non riescono a conciliare l’italianità con il desiderio di diventare veri americani; aspettano la conversione come qualcosa che da un momento all’altro li aiuterà a vivere la vita che hanno sempre sognato. Soldati usa un termine preciso per descrivere questo processo: transustanziazione, una parola difficile che in teologia vuol dire la trasformazione di sostanza (pane e vino) in sostanza (corpo e sangue di Cristo). Non a caso, un termine religioso che richiama la fede, un appiglio nei momenti di maggior sconforto, così che «in faccia alla catastrofe, martiri dello spatrio, giurerebbero di non essersi ingannati».
La visione scompare quando ti accorgi, come Francis Scott Fitzgerald, che New York è soltanto una città:
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New York stories, AA.VV. Einaudi, 2015. A cura di Paolo Cognetti.
Qualche appunto sul mio viaggio a New York.
La seconda è la storia degli scrittori che scrivono di New York. Sono ventidue autori per ventidue racconti, eppure mi è sembrato di leggere sempre la stessa storia con un’opzione doppia sul finale. Perché ci sono due tipi di persone: quelle che arrivano a New York e ripartono in tempo, e quelle che restano. Il tempo è relativo: può essere un mese, un anno, un decennio. Il tempo per salvarsi. Chi lascia New York guarderà sempre alla città come a un miraggio, «uno di quei castelli incantati visitati dai personaggi delle leggende». Truman Capote è forse uno degli scrittori che ha interpretato meglio il sogno newyorkese; per lui la città era un po’ come la gioielleria Tiffany per Holly Golightly, un posto dove «non ti può accadere nulla di male». Dal racconto New York del 1946:
È un mito, la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d'idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico. Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York, chiamatela come vi pare; il nome non ha importanza poiché, venendo dalla più greve realtà dell’altrove, si è solo in cerca di una città, di un luogo dove nascondersi, dove perdersi o ritrovarsi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore, come si pensava seduti sugli scalini d’ingresso, mentre passavano le Ford, come si pensava progettando la ricerca di una città.A chi decide di restare, New York non lascia scampo. Diventa un grande bluff. New York è sempre stata la terra delle possibilità, oggi, come ieri, come cinquant’anni fa. Ma le promesse non fanno una vita, e i sogni non bastano, non bastano mai. È una storia che si ripete, cambiano solo i dettagli. Hazel Morse, Una bella bionda di Dorothy Parker, potrebbe essere la ventottenne Joan Didion di Bei tempi addio: la differenza è che una resta e l’altra si salva. La solitudine imposta a Nathan (Un luogo dove non sono mai stato, David Leavitt) assomiglia un po’ a quella di Nicholas (Ti vedo, Bianca di Maeve Brennan). Tutte le facce che si sovrappongono nei giorni di baldoria puntano lo sguardo sul bicchiere per non riconoscere l’abisso negli occhi dell’altro.
Mario Soldati, nel suo Italo-americani, riporta la testimonianza di chi, nonostante tutto, quel sogno non vuole lasciarlo andare. Gli emigranti, come tanti Arturo Bandini, non riescono a conciliare l’italianità con il desiderio di diventare veri americani; aspettano la conversione come qualcosa che da un momento all’altro li aiuterà a vivere la vita che hanno sempre sognato. Soldati usa un termine preciso per descrivere questo processo: transustanziazione, una parola difficile che in teologia vuol dire la trasformazione di sostanza (pane e vino) in sostanza (corpo e sangue di Cristo). Non a caso, un termine religioso che richiama la fede, un appiglio nei momenti di maggior sconforto, così che «in faccia alla catastrofe, martiri dello spatrio, giurerebbero di non essersi ingannati».
La visione scompare quando ti accorgi, come Francis Scott Fitzgerald, che New York è soltanto una città:
Dalle rovine si erse l’Empire State Building, solitario e inspiegabile come la sfinge, e come un tempo avevo la tradizione di salire sul tetto del Plaza prima di accomiatarmi dallo splendore della città, che si stendeva ovunque arrivasse lo sguardo, così ora salii sul tetto dell’ultima delle torri, la più sfarzosa. Fu allora che capii – tutto mi fu chiaro: avevo scoperto l’errore originario della città, il suo vaso di Pandora. [...] la città non era quell’infinita successione di canyon che immaginava ma aveva dei limiti – dalla struttura più alta vide per la prima volta che da ogni parte sfumava la campagna, in una distesa verde e blu che, quella sì, era illimitata. E con l’atroce consapevolezza che New York era una città, dopotutto, e non un universo, rovinava al suo tutto il castello lucente che si era costruito nell’immaginazione.Forse l’errore è proprio questo: attribuire alla città la capacità (e la responsabilità) di avverare i desideri, affidando all’esterno la forza di un cambiamento che dovrebbe partire da dentro, da ognuno. Come Pasolini, il marxista del racconto di Oriana Fallaci, ho lasciato New York l’undicesimo giorno. Niente, considerando una vita intera. Eppure mi è sembrato proprio il tempo di una vita intera. Forse perché a New York non ci sono mai stata. Forse, invece, non me ne sono mai andata.
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Qualche appunto sul mio viaggio a New York.
Per un attimo ho pensato che ti riferissi al tuo arrivo a New York!
RispondiEliminaNon se nella raccolta è presente ma ti consiglio Atlante americano di Borgese: sempre attuale nonostante il secolo trascorso; tante illusioni giustamente ridimensionate.
Nel frattempo, su blogger, continuo a firmarmi con il vecchio nome.
Arrivo definitivo? Troppo bello per essere vero.
EliminaQuel racconto che citi non c'è quindi segno, grazie!
Un libro che devo trovare assolutamente per affinarmi meglio alla letteratura americana e al suo mondo.
RispondiEliminaMi sembra un'ottima idea! Questa raccolta di racconti ti darà modo di conoscere diversi autori contemporaneamente.
EliminaSai bene il mio rapporto con i racconti, ma questi chissà perché mi attraggono. Sarà la parola New York. Gradirei, dici?
RispondiEliminaAlcuni moltissimo, altri meno, qualcuno no (stessa cosa per me), ma è un'antologia, ed è normale che sia così. Mi piace la possibilità di "assaggiare" diversi autori. Per esempio, mi è venuta una gran voglia di riprendere Capote, del quale ho letto soltanto A sangue freddo.
EliminaOk, grazie.Vorrei un po' sbloccarmi con i racconti e il tema "New York" mi sembra un ottimo espediente per mettermi alla prova.
RispondiEliminaAlmeno visiterei un po' la città tramite gli autori della raccolta (= usare la letteratura per colmare vuoti e sogni a tempo indeterminato).
Ti farò sapere se mi decidi per l'acquisto ;)