Leggere ti apre la mente, si dice, e una volta che raggiungi un livello di conoscenza superiore, con un scatto verso l’alto, o di profondità, verso il basso di te stesso, diventa difficile tornare a viaggiare su percorsi regolari. In realtà non è un concetto nuovo: anche i membri della produzione della serie Gli occhi del cuore sanno che il rimedio più efficace all’ansia è: «Semplice! Ho smesso di leggere. Non leggo più niente. Ma niente, eh!».
Ora la domanda, per chi, come me, legge avidamente da almeno tre quarti della sua vita: leggere fa male? Sì, leggere fa malissimo. Non solo: è anche difficile; è difficile raggiungere l’attenzione giusta, quella che ti permette di accogliere, capire e, se sei veramente assorto, fantasticare. Perciò: a leggere meno, sei più felice? Sì, se consideri la felicità uno stato di beatitudine illusoria e incosciente.
Questo è il motivo per il quale leggo da oltre vent’anni: perché fa malissimo in un modo tutto speciale. Qualcuno direbbe terapeutico, però quel qualcuno toglierebbe parecchia poesia e parecchio godimento alla faccenda. Questo è pure il motivo per il quale non leggo da mesi, più o meno da quando abbiamo cominciato a guardarci negli occhi dalle finestre delle nostre case. Di fatto non ero pronta a impegnarmi in una storia che non fosse quella che stavo vivendo.
All’inizio non l’ho sentito come un problema, poi però ho cominciato a pormi delle domande; un conto è scegliere di non leggere, un conto è scoprire di non riuscire più a farlo. Succedeva questo: prendevo un libro, leggevo due pagine, mi accorgevo di non essere concentrata e ricominciavo, leggevo le stesse pagine, nuova epifania (“Chi è il tizio col cappello? Quand’è che è sbarcato in America? Aspetta… dov’è che ha detto che suo padre è morto? Perché parla in francese?”). Così, libro dopo libro, settimana dopo settimana, in uno svilente circolo senza fine.
Ora la domanda, per chi, come me, legge avidamente da almeno tre quarti della sua vita: leggere fa male? Sì, leggere fa malissimo. Non solo: è anche difficile; è difficile raggiungere l’attenzione giusta, quella che ti permette di accogliere, capire e, se sei veramente assorto, fantasticare. Perciò: a leggere meno, sei più felice? Sì, se consideri la felicità uno stato di beatitudine illusoria e incosciente.
Questo è il motivo per il quale leggo da oltre vent’anni: perché fa malissimo in un modo tutto speciale. Qualcuno direbbe terapeutico, però quel qualcuno toglierebbe parecchia poesia e parecchio godimento alla faccenda. Questo è pure il motivo per il quale non leggo da mesi, più o meno da quando abbiamo cominciato a guardarci negli occhi dalle finestre delle nostre case. Di fatto non ero pronta a impegnarmi in una storia che non fosse quella che stavo vivendo.
All’inizio non l’ho sentito come un problema, poi però ho cominciato a pormi delle domande; un conto è scegliere di non leggere, un conto è scoprire di non riuscire più a farlo. Succedeva questo: prendevo un libro, leggevo due pagine, mi accorgevo di non essere concentrata e ricominciavo, leggevo le stesse pagine, nuova epifania (“Chi è il tizio col cappello? Quand’è che è sbarcato in America? Aspetta… dov’è che ha detto che suo padre è morto? Perché parla in francese?”). Così, libro dopo libro, settimana dopo settimana, in uno svilente circolo senza fine.
Non era una reazione insolita, tant’è che diversi lettori hanno confermato di aver sofferto di una prolungata inappetenza letteraria che non hanno saputo sanare attraverso i classici “trucchi del mestiere”. Ma io volevo dare un nome a questa cosa, allora ho cominciato a indagare.
Secondo un articolo apparso su theconversation.com, in effetti, le nostre abitudini sono cambiate: dai risultati di una ricerca che ha coinvolto circa 800 lettori, è emerso che durante lo scorso anno si è letto di più, perché c’era più tempo a disposizione, ma peggio, cioè con meno coinvolgimento. Molte persone hanno cercato conforto nei classici o nella rilettura dei libri preferiti, altri hanno cercato un rifugio in titoli come La campana di vetro di Sylvia Plath, La peste di Albert Camus e Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez per trovare un’affinità tra le vicende dei personaggi e il senso d’isolamento scaturito in fase di lockdown.
Oliver J. Robinson, neuroscienziato inglese, ha rilasciato un’intervista a maggio del 2020 sul sito di Vox intitolata proprio Why it’s so hard to read a book right now. Robinson ha formulato una teoria che suona così: la nostra capacità di attenzione è stata erosa dall’ansia e la pandemia ha generato ansia perché da mesi cerchiamo di “risolvere il coronavirus”, un’incertezza irrisolvibile. Come dice Steve Joordens, professore di psicologia dell’Università di Toronto: «Leggere è diverso dal guardare la TV, che è la risposta a uno stimolo [...]. Ti siedi davanti a uno schermo e resti colpito. La lettura è un processo più interattivo. Ti chiede d’impiegare la tua immaginazione». All’inizio della pandemia, Joordens ha pubblicato un corso online gratuito su come gestire l’ansia durante la diffusione del COVID-19.
Ho sentito, poi, che quando attraversiamo periodi complessi, allontaniamo da noi le più genuine passioni per evitare che le stesse s’impregnino del nostro grigiore. Sarebbe, quindi, un meccanismo inconscio di preservazione di ciò che di buono possiamo fare. Vuol dire associare quell’attività a un momento di gioia e dedicarle, appunto, solo la nostra spensieratezza. Non ho trovato un fondamento scientifico a questa ipotesi, ma mi sembra abbastanza ragionevole.
La pandemia ha portato via parecchie cose; ne ha lasciate altrettante, così tante che qualche problema d’attenzione sembra un’eredità accettabile. In verità è il sintomo di un malessere profondo, che si traduce in un’incapacità di focalizzarsi sul presente, cosa che non riuscivamo a fare benissimo già prima. È questa la nostra nuova missione: accettare le conseguenze psicologiche del dramma che abbiamo attraversato e provare a gestirle nel modo migliore possibile. Magari proprio tornando a leggere, per quanto male possa fare.
Mi riconosco completamente in questo quadro, anche se non potrei essere altrettanto lucida nell'individuare le cause delle mie difficoltà con la lettura negli ultimi 15 mesi. Penso ci sia anche una profonda stanchezza: il mio lavoro, come moltissimi altri, ha subito importanti conseguenze e le numerose ore passate al pc e senza diritto alla disconnessione (email e telefono erano sempre attivi per comunicazioni fra colleghi e dall'alto) hanno costituito un carico tale di fatica e stress che l'unica reazione nei momenti liberi è stata spesso quella di buttarmi sul divano senza libri e talvolta anche senza la blanda distrazione della tv, con la totale incapacità di concentrarmi su qualcosa. In questa situazione mi sono sentita come svuotata, prosciugata, soprattutto nel periodo del lockdown rigido, quando non esisteva distinzione fra spazio privato e spazio di lavoro e le comuni interazioni che avrebbero aiutato a scindere i due aspetti erano vietate, pertanto credo fosse naturale che di questa strana apatia dovesse fare le spese anche la lettura. Ho però cercato di proseguire, tenendo sempre un paio di libri accanto, leggendo e spesso rileggendo intere pagine o ripartendo da capo (perché anche a me capitava spesso di dimenticare informazioni importanti), incappando in qualche libro interessante e in qualche altro che ha reso vana l'ostinazione a proseguire. Questa settimana, finalmente, ho iniziato un romanzo che mi ha coinvolto fin dalle prime pagine e di fronte al quale mi sono riconosciuta la lettrice di un tempo.
RispondiEliminaIo alterno momenti di sconforto a qualche falsa partenza. Spero di riprendermi presto :)
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